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Immagine del redattoreAngela Marino

Filippo Turetta figlio dell'inquietante 'normalità' della famiglia italiana

Aggiornamento: 24 nov 2023

"I genitori dovevano accorgersene", "non è possibile che non abbia dato segnali", sono alcuni dei commenti che girano sui social a corredo delle notizie su Filippo Turetta, omicida reo confesso dell'ex fidanzata, Giulia Checchettin. Un ragazzo all'apparenza innocuo passato in poche ore dalla calda quotidianità della propria famiglia alla cella di un carcere, tanto da far dire: "in che famiglia è cresciuto?".

La nostra signori, la nostra. Quella italiana.



Mettere sotto il microscopio due genitori devastati dal dolore come Elisabetta Martini e Nicola Turetta è a dir poco odioso e ha, almeno nella mia sensibilità, il sapore di una violenza. Eppure, con le dimensioni gigantesche assunte dalla vicenda, penetrata in ogni spazio di interlocuzione, riflessione e conversazione, in ogni contesto pubblico e privato, non possiamo omettere di fare delle considerazioni. Soprattutto perché l'omicidio di Giulia Cecchettin ha smosso una questione sociale che ci vede coinvolti in prima persona come educatori di potenziali violenti e di potenziali vittime. Chiederci dove la nostra generazione ha sbagliato è indispensabile alla salute del corpo collettivo. E allora, facciamoci violenza e parliamone, con il maggior rispetto possibile. Abbiamo letto tutti l'intervista dei Martini-Turetta al Corriere della Sera. Ne riporto alcuni stralci. "Secondo noi - dice il signor Nicola riferendosi a Filippo - gli è scoppiata qualche vena in testa. Non c’è davvero una spiegazione. Parlano di possesso, maschilismo, incapacità di accettare che lei fosse più brava di lui. Non è assolutamente niente di tutto questo. Io sono convinto che qualcosa nel suo cervello non abbia più funzionato". "Soffriva - racconta - ma (lui e Giulia, nda) continuavano a vedersi. I ragazzi a quell’età si lasciano, si mettono assieme. Lui, negli ultimi tempi, sembrava tranquillo. In questi giorni mi hanno detto che dovevo preoccuparmi se quando andava a letto abbracciava l’orsacchiotto pensando a Giulia. Io davvero non ho dato peso a questa cosa". Sempre il signor Nicola, in difesa della moglie, Elisabetta: "Cosa doveva fare? Non stirargli la tuta quando doveva andare a pallavolo? Non preparagli la cotoletta quando tornava? Ha fatto quello che fanno tutte la mamme, io credo. No?". Ora, sorvolo sull'immensa tenerezza che mi fa la riflessione sull'orsetto, feticcio a cui, da genitori, era veramente impossibile dare un valore 'criminologico', per non dire sbagliato. Mi sembra ridicolo biasimarli per una cosa del genere e mi addolora pensare a quanto debba sentirsi attaccata la madre di Filippo, Elisabetta Martini, se il marito si sente in dovere di giustificare le sue attenzioni nei confronti del figlio. Quello che trovo stonato, tuttavia, è il modo in cui questi genitori (il loro pensiero è affidato al papà perché Elisabetta, in preda al pianto, non se l’è sentita intervenire) raccontano il figlio. La cotoletta, la tuta stirata, l'orsetto. Senza voler sindacare ogni costume di questa famiglia, quello che traspare è un'autonomia non raggiunta da Filippo, se ne parla come di un bambino. Filippo Turetta è un uomo di 22 anni. Maschio o femmina, si presume che a 22 anni, ci si possa far da mangiare da soli. Al contrario, quello che traspare, guardando Giulia, è un senso di grande indipendenza e di maturità, al quale avrà contribuito, sicuramente, anche la prematura perdita della madre come figura accudente. Prese singolarmente queste piccole note stonate non significano granché e certo non hanno fatto di Filippo l'uomo che è oggi, altrimenti, se il non essersi lasciati alle spalle un mondo bambino fosse un fattore scatenante, le nostre case sarebbero teatro di continue tragedie. Ci siamo assunti in questi giorni l'onere di guardare a questo delitto da ogni angolo per cambiare le cose. Abbiamo capito che al netto delle leggi, delle pene, dei corsi nelle scuole, è l'educazione affettiva che diamo ai nostri figli in ambito familiare a strutturare le loro competenze relazionali. Abbracciamo questi due genitori e chiediamoci, ora: e noi, stiamo veramente facendo tutto bene coi nostri figli?

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