Oggi ho voglia di raccontarvi di una parte del mio lavoro che io amo molto, quella delle interviste, in particolare, delle interviste video. Per Fanpage, qualche anno fa, ho iniziato quasi per caso a realizzare una serie di contenuti di breve durata, dai 10 ai 15 minuti, in cui intervistavo i protagonisti di fatti di cronaca. Loro erano vittime di reati o ingiustizie, di violenza, di discriminazione, di stalking, ma anche vittime di errori giudiziari, persone ingiustamente accusate e detenute per un crimine che non avevano commesso. Io, l’intervistatrice, ero lì in piedi davanti a loro accanto alla macchina da presa, ben consapevole del fatto che non sarei comparsa nel video, dove per scelta editoriale sarei stata del tutto tagliata. Sarebbero rimaste solo le loro risposte, le loro parole. Sullo sfondo dell’intervista, un telo nero ad annullare qualsiasi velleità e frivolezza pseudo televisiva.
Volevo che a parlare fossero solo i traumi subiti da queste persone, che in risalto ci fossero solo i oro volti alterati dall’emozione, i loro occhi assenti nello sforzo del ricordo, le mani che mimavano le sensazioni di allora. Funzionava così: loro arrivavano in redazione, camminavano a testa bassa nei corridoi, intimiditi dal luogo e dalle persone e dopo circa un’ora o due se ne andavano con la schiena dritta, rilassati, svuotati. Quello che facevamo lì dentro con il collega regista era una specie di terapia. Loro si sedevano sullo sgabello, impacciati, a disagio, sulla difensiva e a quel punto io capivo che non avrebbe avuto senso incalzare con le domande dell’intervista. Qualcuno, a volte, si faceva prendere dal panico all’idea di dover rivivere un abuso davanti a una telecamera, così cominciavo a chiacchierare del più e del meno, assicurando che avremmo tagliato tutto e piano, piano, l’interlocutore si lasciava andare. Me ne rendevo conto dal lessico e dal linguaggio del corpo: controllato, quest’ultimo, poi sempre più sciolto finché a volte stare fermi sullo sgabello diventava difficile. E poi dopo un po’ arrivava la protagonista vera dell’intervista, la star, quella che tutti stavamo aspettando.
L’emozione. La mia, la loro, quella di chi avrebbe guardato il video. Non parlo di lacrime, non ho mai saputo che farmene delle lacrime intese come momento apicale in un'intervista, no. Parlo di quella trasfigurazione del viso, quel momento di rottura dove la rabbia, il sopruso o il ricordo del carnefice si fanno vividi e sembra quasi di essere lì con loro dove tutto ha avuto inizio. È un istante, è labile e bisogna custodirlo tra le dita con la delicatezza estrema con cui si tratterebbe una farfalla, ma è prezioso. A quel punto pensavo: "ce l’ho, è fatta". E quando andavamo online, era sempre bello assistere alla soddisfazione dell’intervistato e alla partecipazione del pubblico. Uno di loro, vittima di abusi da parte di un prete, un giorno mi ha detto: “Lui non è mai andato a processo e di fatto vive la sua vita come se niente fosse, ma aver fatto quell’intervista mi ha dato quel briciolo di giustizia che non ho mai avuto. Mi ha regalato la sensazione di stare dal lato giusto nel banco di un tribunale che non si è mai aperto. Grazie”. In quel momento ho capito anche il valore non solo sociale, ma curativo, terapeutico di questa pratica. E sono stata felice. Felice di aver fatto (una piccola) differenza nella vita di una persona, felice di averne aiutate altre a riconoscersi e riconoscere l'abuso. Al di là delle soddisfazioni che questo format mi ha dato, penso che sia stato uno dei momenti più belli e stimolanti della mia esperienza umana fino a oggi nonché la rappresentazione dei capisaldi della mia idea di giornalismo. Le storie vanno raccontate dai protagonisti con una mediazione silenziosa e sommessa dell’intervistatore. Una storia parla da sé.
Di seguito una delle interviste che più mi ha emozionato, quella a Ilde Terracciano. Oggi splendida nonna, un tempo, sposa bambina per volere della madre in una Napoli che sembra lontanissima, ma risale solo agli anni Settanta.