Al netto delle interpretazioni coinvolgenti, 'Qui non è Hollywood', la miniserie sul delitto di Avetrana, in onda su Disney, ha un imprescindibile difetto: essere esattamente ciò che pretende di criticare. Con la sua narrazione superficiale che ricalca pedissequamente le immagini e i momenti televisivi rimasti iconici degli eventi non è altro che l'ennesimo buco della serratura da cui guardare la famiglia dell'orrore. Nulla è aggiunto al già noto, tutto è superficiale report della documentazione esistente. E quello che dovrebbe essere critica al meccanismo mediatico, diventa compiaciuta e nostalgica rievocazione.
Sì, anche io ho visto Qui non è Hollywood, la miniserie drammatica di Disney, ispirata al caso di cronaca nera di Sarah Scazzi e basata sul libro Sarah. La ragazza di Avetrana, di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni. Pur avendola apprezzata, devo confessarvi che mi ha deluso molto.
No, non perché nutra dubbi sulla sentenza che ha condannato Cosima Serrano e Sabrina Misseri per omicidio in concorso. Mi ha delusa perché penso che sia un’enorme occasione mancata per allontanare certe suggestioni e raccontare il vero dramma di una famiglia divisa, conflittuale, disfunzionale. Una famiglia in cui è maturato e andato in scena un delitto esecrabile. Non tanto, non solo, perché la vittima era una ragazzina, una nipote, una cugina, una minore, quanto perché questo delitto più che uccidere Sarah ha ucciso la sua irriverenza, la sua forza, la sua intelligenza, le sue potenzialità, il suo futuro. E uccidere il futuro ha sempre il valore di un'aggravante.
Per chi non l’ha (ancora?) vista: la narrazione ripercorre gli ultimi giorni di Sarah Scazzi (interpretata, direi meravigliosamente, da Federica Pala), una quindicenne che vive una relazione complessa con la cugina Sabrina Misseri (Giulia Perulli, anche lei credibile, coinvolgente, magnetica), figura centrale della storia. I conflitti latenti, le gelosie e le dinamiche familiari culminano nel drammatico epilogo che conosciamo e che è stato il centro di un circo mediatico che non è mai veramente finito, dacché siamo qui a parlarne. E dunque. Mi piace la critica, che ho condiviso, dello sciacallaggio dei media accorsi sulla carcassa di quella famiglia dilaniata dalle sue ferite. Ciononostante, credo che la serie vi indugi con troppo compiacimento a discapito dei veri protagonisti, il trio della morte.
Cosima Serrano (Vanessa Scalera, anche lei ipnotica) è, nonostante l’interpretazione, un personaggio bidimensionale, diviso perfettamente nel doppio ruolo di matriarca del sud e madre autoritaria e anaffettiva. Manca del tutto uno sguardo al suo passato - avrei trovato interessantissimo un prequel - e al percorso familiare e di vita che ha modellato la sua personalità dura e manipolativa. Piatta nel suo serafico distacco anche Concetta Serrano Spagnolo (interpretata dalla bravissima Imma Villa), di cui intuiamo poco, sappiamo meno. Poi c'è lui, protagonista vero.
Michele Misseri (Paolo De Vita), la caricatura del contadino rozzo e ingenuo, è privo di profondità, di ombre, di quell’oscurità che tutt'oggi fa capolino dagli occhi vigili che nemmeno la vita carceraria ha appannato. Un personaggio che scade nello stereotipo e finisce per mangiarsi una parte della storia. Perché, sebbene si limiti al ruolo di cavalier servente delle due donne assassine, di maggiordomo nero, il suo personaggio non è affatto marginale nelle dinamiche familiari e relazionali che hanno portato alla tragedia. Eppure di tutto questo non c'è traccia, come del doloroso passato di abusi subiti da Michele, di cui nulla di evince, se non in qualche tormentosa notte insonne.
Non parliamo poi della figura, del tutto incolore, di Ivano Russo e del silenzio assordante sul garbuglio di omissioni, bugie e depistaggi che nella realtà storica ha poi portato a un processo bis per falsa testimonianza che ha visto imputate 11 persone - 11 - tra parenti e amici della famiglia Scazzi - Misseri. Processo che ha visto fioccare condanne - 5 anni a Ivano Russo - poi annullate dalla prescrizione. E se è vero che la serie si ferma alle indagini, senza dare conto della storia giudiziaria, è pur vero che queste condotte sono state poste in essere durante le prime fasi del caso, fasi che la serie ha insistito a fotografare attimo dopo attimo indugiando più che sulla storia, sulle rivalità tra cronisti e sul museo dell'orrore in cui avevano trasformato Avetrana.
Anche il personaggio di Sarah, come tutto il racconto, è didascalico. Scritta, raccontata e rappresentata attraverso gli elementi già noti al grande pubblico, utilizzando le pagine del diario, gli atti. Poco, niente, è affidato all'immaginazione degli sceneggiatori, che hanno voluto aderire pedissequamente ai dati conosciuti. Eh, sì. Perché è questo il vero limite della serie Qui non è Hollywood: restare fedele non tanto alla sentenza, quanto alla documentazione degli eventi realizzata da quegli stessi media che la serie mette alla gogna, finendo per replicarne lo storytelling morboso e superficiale.
A ogni scena riconosciamo, con un sinistro effetto nostalgia, certe riprese del telegiornale, certi tagli delle inquadrature, certi momenti televisivi, sempre televisivi, che la serie finisce per consacrare come iconici, riconoscendo a quegli stessi media che demonizza, il potere oleografico, narrativo, di chi di quella storia ha scritto tutto.
No, non è così. Del caso di Avetrana ci sarebbe molto di più da dire, da scrivere, da trasfigurare. Di quella famiglia scivolata nell'orrore, ci sono ancora mondi non raccontati, che meriterebbero, quelli sì, di essere narrati. Lontano dai complottismi di massa, dal revisionismo tardivo, ma soprattutto dalla finta critica, che mentre addita i media, gli fa il monumento.