- Angela Marino
- 30 lug
- Tempo di lettura: 2 min
Il mio ricordo di Simonetta Lamberti, vittima innocente di camorra, nel 43esimo anniversario della sua morte.

Il 29 maggio 1982
è stato il giorno in cui il mio corpo ha smesso di crescere, ma la mia storia ha continuato a camminare sulle strade degli altri.
Avevo undici anni, la pelle ancora salata dal mare, le ciocche bagnate che si attaccavano al collo. Ridevo.
Sedevo dietro, nel sedile dell’auto, con mio padre al volante. Papà non lo diceva mai, ma aveva paura. La portava cucita addosso come una seconda camicia, sotto quella da magistrato. Ma quel giorno, per un momento, era scivolata via. Il mare ci aveva fatto credere di essere solo un padre e una figlia.
Poi.
Poi ci fu il suono che non somiglia a niente che tu abbia mai sentito. Uno strappo nel tessuto del mondo. La macchina tremò come se volesse alzarsi e scappare da sola. I vetri esplosero in piccoli fuochi d’artificio trasparenti. Mio padre urlò il mio nome.
Il proiettile mi colpì al cuore, ma fu il suo dolore a tenermi ancora lì, per un momento in più. Mi prese tra le braccia, come quando ero più piccola e fingevo di dormire per farmi portare a letto. Solo che stavolta non stavo fingendo.
Da allora, vivo in quello spazio tra ciò che è stato e ciò che non sarà mai.
Mio padre negli anni ha smesso di sorridere con gli occhi. La sua giustizia è diventata una cosa muta, non più crociata, ma resistenza. Mia madre accarezza ancora la mia foto come se potesse scaldarmi. I ragazzi a scuola, ogni tanto, pronunciano il mio nome senza sapere bene perché.
Non dite che sono stata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Io ero con mio padre. Tornavamo dal mare. E quello dovrebbe essere sempre il posto giusto.
(Angela Marino)